Me le guardo ogni tanto, le controllo per coglierne eventuali cambiamenti. Non sono invalidanti, le mie, ma ne ho di sparse un po’ qui un po’ là. Mi ricordano il mio cane, da piccola, a cui ho pestato la coda.
O la tazza di metallo che mi ha tagliato il mento, inciampandomi. O le cadute nel corso dei miei viaggi. O l’ultima, salendo le scale al mio posto di lavoro, a pochi mesi dalla pensione, in fronte. Non mi hanno rovinato l’aspetto, né mi danno fastidio, ma sono lì a ricordare. Nel tempo mi sembra anche di aver imparato a, non dico apprezzarle, ma a conviverci e non trovarle neanche brutte.
Sono allora giunta a riflettere su quelle cicatrici non fisiche, ma ugualmente presenti nel ricordo, anzi forse ancora di più.
E mi capita di fare piacevoli scoperte: qualcosa che mi aveva molto fatto soffrire, assume un colore diverso, meno intenso e neanche più così doloroso. Non dico che tutte abbiano la medesima importanza o peso, ma credo che tutte possano essere rivisitate, perché fanno parte di noi. Sono consapevole che possano essere difficilmente sopportabili, nel fisico o nell’animo.
Ascoltando o leggendo esperienze mi sembra che la rielaborazione negli anni, il tempo che passa, quasi mai senza lasciare un segno, il prendere le distanze e vederle sotto un’altra luce – controluce – possano portare a rivisitazioni soddisfacenti. Non solo per noi, perché – chissà – dal confronto potremmo anche sentirle meno dolorose. Dice Vasco Rossi: «La vita la impari sulla tua pelle e le cicatrici che porti addosso sono gli appunti che hai preso nel tempo».