Scrivo dopo l’8 marzo, volutamente, in quanto un po’ allergica a queste ricorrenze. Rischiano di diventare una memoria dovuta e scontata perché tutti ne parlano, con alcune valenze.
La cerimonia che si deve tenere, un falso rispetto e la poca autenticità di contenuti. È di fine febbraio 2024 la testimonianza di una giornalista iraniana sul Corriere della Sera: racconta la sua vita di donna in quel Paese. Può usufruire della tecnologia come noi, potrebbe guidare l’automobile, e lo fa, ma a suo rischio e pericolo. Le donne in Iran hanno sempre davanti la figura di Mahsa Amini uccisa perché non stava alle regole. Altre la seguono in quella strada, oserei dire pericolosa per il quieto vivere, consapevoli del rischio ogni volta che contravvengono alle norme imposte dal regime.
«Dal giorno in cui Mahsa Jina Amini è stata uccisa, non ho più indossato il velo», dice. Spiega che le violenze che racconta non riguardano solo le donne. Gli uomini iraniani vengono arrestati se sostengono le donne. Le loro auto e moto vengono confiscate e vendute.
Termina così: «Siamo ancora vivi. Respiriamo ancora e lottiamo ancora. Perché sappiamo che c’è molta speranza nella disperazione. La fine della notte nera è bianca». Che tempra!
L’invito pressante è a rispettare le persone, tutte, le loro storie, travagliate o all’apparenza senza ostacoli, attenti alle rivendicazioni che portiamo avanti. Troviamo il coraggio per testimoniare l’esistenza di un diritto che esige rispetto, libertà, possibilità di essere se stesse in ogni contesto in cui ci troviamo a vivere!