«Sugli alti pianori le cose sanno d’eterno. Per non trovarci con niente, mettere a fuoco la nostra vita bisogna contro gli impervi picchi». L’anziano poeta aveva intitolato questa sua ode “Noi e l’eterno”.
Mi è sempre piaciuta, non tanto per il richiamo all’eternità, ma per quell’invito a buttarsi, a provarsi. Non è sufficiente impegnarsi in ciò che sappiamo fare, che abbiamo già sperimentato, che presumibilmente verrà bene. Senza rischiare, o almeno senza rischiare troppo, siamo tutte e tutti chiamati a confrontarci con qualcosa di più grande e che inizialmente potrebbe rivelarsi un percorso difficile, impegnativo.
Consiste nel calibrare le nostre forze, in sostanza ci indica di non esagerare. Per avere un risultato, ottenere una soddisfazione, dobbiamo metterci del nostro.
Si tratta di affrontare qualche passaggio sconosciuto, in montagna è facile immaginarlo. In buona sostanza è l’invito a non guardare soltanto il paesaggio attorno, che può essere splendido e rassicurante. È l’andare oltre per ottenere qualcosa, per provare le nostre forze. Contiene la speranza che ce la posso fare. Implica anche la ricerca di saper calibrare l’impresa, fisica o spirituale, per rimanere con qualcosa in mano, qualcosa che ci soddisfi, senza rischiare di farci male.
Una buona regola potrebbe essere non intraprendere imprese in solitudine, perché, in caso di un imprevisto o di una difficoltà, ci sia con noi qualcuno che sa cogliere il momento e riesca a sostenerci. In montagna non essere soli può garantirti la salvezza, la vita.