Gesù è il nostro Signore non perché spadroneggi su di noi: mai in nessun vangelo si dice che approfitti dell’onore in cui è tenuto per ottenere vantaggi o servizi. Anzi, avviene esattamente l'opposto.
Infatti, è Signore che si pone alla guida di un cammino, come un apripista, come il pastore di un gregge, che lo conduce condividendone per intero la vita. Diventa allora interessante che i vangeli non parlino mai del Signore risorto senza citarne la croce. Non solo, come sarebbe ovvio, perché non può tornare alla vita se non chi è morto. Ma proprio citando la sofferenza subita, piedi e mani trafitti dai chiodi, costato aperto dalla lancia: «Cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto» (Mc 16,6). Tutti noi abbiamo sofferenze piccole e grandi nel nostro curriculum. Ci sono grandi pensatori e guide religiose che hanno addirittura sostenuto che la dimensione più universale dell’esistenza umana è proprio la sofferenza.
Il Signore, però, mostra che c’è un modo di reagire alla sofferenza che non è spirito di vendetta, di rivalsa, o anche solo di autogiustificazione, ma porta a offrire e augurare la pace, a vivere e condividere una missione, a fare della propria esistenza un dono, scoprendovi il segreto della vita più felice e riuscita. A essere rilevante non diventa tanto la sofferenza, ma come l’abbiamo rielaborata, che cosa ci costruiamo sopra. Anche Gesù ha dovuto viverla, ed è stata motivo per capire ancora più in profondità l’umanità, gli altri. Questo ha dovuto impararlo, persino lui. E ci ha indicato, con l’esempio, che la propria personale morte (anche quella “piccola”, della sofferenza di ogni giorno) può diventare strumento per donare vita a sé e agli altri.
Domenica di Pentecoste A ⇒Leggi il vangelo secondo Giovanni 20,19-23